venerdì 22 marzo 2013

DIAZ



Con questo lavoro, coraggiosamente prodotto da Domenico Procacci, il regista Daniele Vicari ci sbatte violentemente in faccia e senza mezzi termini “La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese Occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”, come definita da Amnesty International. Ho voluto sottolineare il coraggio degli investitori nel realizzare questo film, le quali sequenze non sono state fatte girare in Italia, poiché il loro gesto ha significato un affronto alle case di produzione mainstream che hanno ovviamente rifiutato il progetto. Con un cast che vede impegnati i volti, tra i tanti, di Elio Germano, Claudio Santamaria, Alessandro Roja, Ralph Amoussou, Paolo Calabresi e moltissimi altri, Vicari ci racconta quanto accaduto nella notte del 21 Luglio 2001, in occasione del G8, alla scuola Diaz di Genova: l’istituto scolastico diviene in quell’occasione l’alloggio di tanti manifestanti ed appartenenti al movimento Tute bianche. Quello che dovrebbe essere un centro di accoglienza è destinato a divenire un vero e proprio macello, nel senso letterale del termine. La pellicola si concentra, montando sapientemente immagini riprese dal vero con sequenze interamente riprodotte sulla base degli atti processuali, sull’irruzione delle forze dell’ordine nella Diaz. Essendo un patito del genere horror di certo il sangue sullo schermo non mi disgusta, ma vedendo DIAZ non è stato così. DIAZ è diverso. Circa 30 minuti di incessante carica sanguinolenta, insulti ed umiliazioni contro i manifestanti innocui e disarmati equivalgono ad un pugno nello stomaco dello spettatore. Quello che è stato un semplice pretesto da parte dei caschi blu per vendicarsi di quanto avvenuto nelle ore precedenti, a causa dei gruppi facinorosi e violenti, per le strade di Genova viene meticolosamente denunciato attraverso questa iperviolenta pellicola degna di poter essere definita un horror vero e proprio. Ma questa volta non si tratta di un copione sapientemente scritto da qualche maestro del brivido, bensì della pura e pessima realtà. Le torture nelle carceri alle quali vengono sottoposti i manifestanti in stato di fermo contribuiscono a lasciare un segno indelebile nella memoria dello spettatore che, incredulo, assiste al susseguirsi di questi drammatici fatti. Se quanto riproposto in DIAZ rappresenta chi dovrebbe simboleggiare la giustizia nel Paese in cui vivo, preferisco non ritenermi italiano. Vedete DIAZ e non dimenticate!
DON’T CLEAN UP THIS BLOOD!
Nico Parente

giovedì 14 marzo 2013

PROFONDO ROSSO



Quando si parla di thriller si parla necessariamente di PROFONDO ROSSO. Il film capolavoro di Argento ha sconvolto critica e pubblico alla sua uscita nelle sale per la magistrale e meticolosa cura dei particolari, bravura tecnica del regista che ancora una volta, dopo l’enorme successo riscosso da L’uccello dalle piume di cristallo ( 1969), ricorrendo alla tecnica in soggettiva  ci mette il coltello in mano e per l’impeccabile recitazione degli attori: Gabriele Lavia, David Hemmings, Daria Nicolodi, Clara Calamai tra i protagonisti. La sceneggiatura, scritta a quattro mani dallo stesso Argento in collaborazione con il grande Bernardino Zapponi ( R.I.P. ), è un perfetto susseguirsi di sequenze macabre ottimamente descritte e curate nei minimi particolari.
Marc, giovane pianista, assiste all'assassinio di una parapsicologa ma non riesce a vedere il volto dell'omicida. Mentre indaga aiutato da una bella giornalista, le persone con cui viene in contatto cominciano ad essere assassinate una dopo l'altra. La verità è insospettabile.
Questo è un film importante per Argento, che con questa pellicola effettua il suo primo passo nell’horror. Non mancano infatti elementi riconducibili al metafisico, seppur presenti in maniera soffusa, che contribuiscono a rendere questo capolavoro del cinema thriller mondiale ancor più carico di suspence e terrore. Con PROFONDO ROSSO Argento anticipa gli elementi che provvederà a mettere in risalto nei successivi lavori e ripropone tutti quelli che hanno contribuito a rendere il suo stile unico nel genere: il tema del trauma, il ricorso alle armi bianche, il continuo confronto con l’infanzia e con le esperienze che hanno segnato la mente dell’assassino. L’intero staff tecnico funziona perfettamente e contribuisce alla riuscita di questo thriller per eccellenza: merita infatti di essere citato Carlo Rambaldi ( il celebre creatore di E.T.), qui alle prese con la realizzazione di un perfetto cadavere; il direttore della fotografia è Luigi Kuveiller, mentre le musiche sono dei Goblin. La giovane band rock-progressive, chiamata a sostituire un impegnato Gaslini, stringe da questo momento in poi un lungo rapporto di collaborazione con il regista romano. La colonna sonora di PROFONDO ROSSO rimane per lungo tempo in vetta alle classifiche riscuotendo un successo straordinario. Argento presenta uno stile personale nell’estetica dell’omicidio: nessuna vittima viene uccisa con armi usuali, la morte non è mai rapida, il delitto è portato allo stremo ed il sangue sgorga a fiumi. Il killer indossa guanti neri ed impermeabile scuro ( stile però introdotto da Mario Bava ) e la sua identità non viene svelata sino alla fine. Il regista, come in ogni suo lavoro, anche in questo semina elementi e tracce riconducibili al suo profilo personale, alle sue ansie e alle sue fobie, al suo vissuto ( molto viene riportato nella figura della giornalista Gianna ). Il duplice risvolto finale è poi un vero e proprio marchio di fabbrica di casa Argento. Un must non solo del cinema di genere, ma di tutto il panorama della Settima arte.
Nico Parente

martedì 12 marzo 2013

ROMANZO CRIMINALE - Il film



Forse vi chiederete il perché di questa recensione su un simile blog. Beh, non di sola violenza onirica, visionaria e fantascientifica si campa! Chi scrive, infatti, è un patito anche di gangster movie, polizieschi e poliziotteschi ( tutti generi che in qualche modo incrociano il thriller ed il giallo e per la loro violenza sfrenata, a tratti, anche l’horror ). Tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo ( 2002 ), questa pellicola si rivela come uno dei migliori lavori firmati Michele Placido ( 2005 ): il regista si propone di raccontare un pezzo della triste storia che ha attanagliato il nostro Paese per anni e che ha visto protagonisti, invischiati in oscure trame, vicende storiche degli anni ’70 ed eclatanti fatti di cronaca, uno spietato gruppo di criminali noti al grande pubblico come Banda della Magliana. Quello narrato da De Cataldo è un perfetto innesto di fatti realmente accaduti misti ad eventi e personaggi puramente inventati, ma che ricalcano meticolosamente le orme di sanguinari banditi che han lasciato il segno del loro vasto Impero Criminale. Placido, ricorrendo ad uno stile personale che a tratti prende le distanze dal romanzo d’ispirazione, riporta su pellicola questa coinvolgente e spietata trama:
Il Libanese ha un sogno: conquistare Roma. Per realizzare quest'impresa senza precedenti mette su una banda spietata ed organizzata.
Le vicende della banda e dell'alternarsi dei suoi capi (il Libanese, il Freddo, il Dandi) si sviluppano nell'arco di venticinque anni, intrecciandosi in modo indissolubile con la storia oscura dell'Italia delle stragi, del terrorismo e della strategia della tensione prima, dei ruggenti anni '80 e di Mani Pulite poi. Per tutto questo tempo, il commissario Scialoia dà la caccia alla banda, cercando contemporaneamente di conquistare il cuore di Patrizia, la donna del Dandi.
Un impeccabile Pierfrancesco Favino, coadiuvato sul set da due meno convincenti Kim Rossi Stuart ( Il Freddo ) e Claudio Santamaria ( Dandi ), interpreta alla perfezione il ruolo di boss efferato ( Libano ) pronto a spargere litri di sangue pur di scalare i vertici della criminalità. Stefano Accorsi interpreta il commissario Scialoia, folgorato da Patrizia ( Anna Mouglalis ), e alle prese con drammatici ed importanti fatti che han riempito intere pagine di nera ( intrighi con i servizi segreti e col Vaticano, stragi di Stato, massoneria, P2, rapimento di Aldo Moro e molto altro ancora ). Un film importante ed impegnato, al quale ha fatto seguito un’acclamatissima e più curata serie, che racconta e soprattutto non giustifica, ma anzi denuncia l’irrefrenabile ondata di violenza e morte abbattutasi sull’Italia degli anni di piombo. Momento elevato può certamente essere quello in cui vediamo uno spietato Freddo impegnato contro tutto e tutti pur di vendicare l’amico d’infanzia  ( Libano ) vigliaccamente tradito e ucciso. Il sentimento dell’amicizia misto a quello della vendetta, come quello dell’amore che un sanguinario boss può provare per una donna, mirano ad evidenziare il lato “buono” e “galante” che anche il più brutale malavitoso può possedere. Assolutamente da vedere!
Nico Parente

venerdì 8 marzo 2013

BAD TASTE

Dimenticate i fasti hollywoodiani della saga de “Il Signore Degli Anelli” e di “King Kong”, Peter Jackson ha iniziato la propria avventura cinematografica con film di produzione neozelandese degni della “Troma”, casa di produzione americana specializzata in splatter-comici fondata dal regista LLoyd Kaufman.
“Bad Taste” (1987) rappresenta uno di quei lavori indipendenti in cui il pedale della black comedy e spinto sino alla sua evoluzione più estrema: il trash. Si narra di un’invasione aliena in cui i terrestri finiscono inevitabilmente maciullati in modo comico e sanguinoso. In verità lo scopo degli extraterrestri è quello di vendere i poveri spezzettati malcapitati alla loro catena di fast food antrpofaga, quella di Mr Crumb.
Il “Bad Taste” (“Cattivo Gusto”) del film è da interpretare in senso lato: le scene volutamente splatter-comiche in cui vediamo sfruttati anche parecchi “topoi” del cinema horror (motoseghe, sangue arterioso a fiumi, frattaglie strabordanti) nonché il “Bad Taste” inteso come “gusti strani” di questi alieni, poiché divoratori di carne umana.
Il film è stato subito acclamato come “totem” dl genere splatter-comico e, infatti, Peter Jackson, nel 1992, fece il bis con “Brian Dead”, uno zombi-movie comico molto più estremo di questo e che consacrò il regista-attore neozelandese come icona del genere. Divertente, sanguinoso e politicamente scorretto. Questo è il Jackson che ci manca.
Tradotto inopportunamente con “Fuori di Testa” in Italia, il film ha avuto anche una proiezione al Festival di Cannes.
Per certi aspetti tecnici il film ricorda La Casa (1983) di Sam Raimi. Molte delle ardite inquadrature e dei bizzarri effetti speciali splatter furono realizzati con “mezzi di fortuna”.
Peter Jackson interpreta ben 2 personaggi, il folle Derek dei “boys” e l’alieno Robert.

Francesco Pasanisi ( www.easyphoneyproduction.wordpress.com )







lunedì 4 marzo 2013

Django Unchained




Forse la recensione più difficile da scrivere. Almeno per me. Perché è davvero complicato spiegare al meglio  la bellezza del nuovo film di Quentin Tarantino. Ammetto di essere mossa anche da un amore spropositato nei confronti di questo regista, padre di film e personaggi cult, entrati a far parte a pieno titolo dell’immaginario collettivo: da Le Iene a Pulp Fiction, da Kill Bill fino a Bastardi senza gloria. Ma vi assicuro, vi sto parlando nel modo più oggettivo possibile. Almeno mi sono imposta di farlo e non è poi così difficile, perché proprio nei confronti degli artisti che ami, dai quali ti aspetti tanto, riesci ad essere davvero severo.
Django Unchained conferma lo stile tipicamente “tarantiniano”:  sangue, violenza splatter, battute esilaranti , dialoghi brillanti, e tanta tanta tensione. Non mancano le classiche citazioni e gli omaggi: a Sergio Leone e Corbucci naturalmente. Ma anche a se stesso.
Un miscuglio di emozioni in una storia cadenzata come solo Tarantino sa fare. “Avevate la mia curiosità ora avete la mia attenzione!” recita il personaggio di Leonardo Di Caprio in una scena: è quello che ha ottenuto questo film dopo mesi e mesi di attesa. Non c’è un momento morto e i colpi di scena si sprecano. Il dramma della schiavitù viene raccontato in modo dettagliato e si può sicuramente notare nella cura dei dialoghi e nelle informazioni anche visive lo studio meticoloso di Tarantino dell’argomento, a dispetto di chi, come il regista Spike Lee, lo ha accusato di aver trattato in modo superficiale questo delicato tema (senza aver visto il film tra l’altro).
Django (Jamie Foxx) schiavo di colore reso un uomo libero da King Schultz (Christoph Waltz), cacciatore di taglie, cercherà di liberare a sua volta l’amore della sua vita Broomhilda (Kerry Whashington)  tenuta prigioniera dal malvagio latifondista Calvin Candie (Leonardo Di Caprio). Come in Bastardi senza Gloria Tarantino ci racconta una storia possibile ma non successa, una “favola”: in Bastardi la morte violenta di Hitler per mano di un gruppo di ebrei, in Django un nero “uomo libero” alla vigilia della guerra civile in America, che va a cavallo e  progetta concretamente la sua vendetta aiutato con dedizione da un bianco. Sin dalle prime scene, con sottofondo la canzone “Django” di Luis Bacalov (già colonna sonora del Django di Sergio Corbucci), le atmosfere dell’America schiavista invadono la sala e il sangue delle “merci umane” diventa il nostro sangue . Questa era la normalità, e anche ridere e scherzare accanto ad un cadavere lo era: questa è la potenza di Tarantino. Sopportare il dolore e la violenza smorzandola con una battuta, magari con la rabbia in corpo, scrollando le spalle,  aspettando stoicamente che il nemico si trasformi in un semplice corpo da riempire di pallottole.
Folle, schizzato e irresistibile Leonardo Di Caprio, in splendida forma Jamie Foxx, Samuel L. Jackson da manuale e un Christoph Waltz superbo, che fino a qualche anno fa era soltanto uno sconosciuto attore austriaco ma che ormai ha dimostrato ad Hollywood e a tutto il mondo del Cinema di essere all’altezza dei suoi più importanti attori!
Un Tarantino da Oscar.
E scusate se è poco!
Regia: Quentin Tarantino. Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington.
Caterina Sabato

Non aprite quella porta 3D



Di remake in remake. Ormai è risaputo che nel panorama horror, forse per poca originalità o forse per semplici fini commerciali, quella dei remake è divenuta una vera e propria moda. Da Nightmare ad Halloween, passando ovviamente in rassegna i vari Venerdì 13 per poi giungere a Non aprite quella porta, di rifacimenti ne abbiamo visti a decine! E proprio quest’ultimo ancora una volta è finito nel mirino o, per meglio dire, nel bulbo della telecamera.
Sinceramente sinora pochi sono i casi in cui un remake si è rivelato valido. Ricevuta la proposta da un amico di fare un salto al cinema per vedere un ennesimo massacro compiuto dalla famiglia Sawyer , mi sono ritrovato di fronte ad  una pellicola ambigua: ha deluso le mie aspettative, ma tutto sommato si è presentata divertente, ben realizzata e anche munita di una buona dose di tensione, a tratti.
 Newt, Texas, 1974: alcuni ragazzi vengono brutalmente massacrati dai componenti di una famiglia di cannibali tra i quali Leatherface, forzuto armato di motosega con il volto celato da una maschera in pelle umana. Solo una ragazza si salva e racconta l'accaduto allo sceriffo locale che, con i suoi uomini, circonda la casa della famiglia per farsi consegnare Leatherface, ma l'arrivo di una piccola comunità locale infuriata fa degenerare la situazione. La casa viene data alle fiamme e la famiglia sterminata. Si salva solo una neonata, strappata di nascosto alla madre da uno dei giustizieri per farne dono alla moglie impossibilitata ad avere figli. Parecchi anni dopo, Heather apprende dai genitori di non essere la loro figlia naturale, ma di essere la progenie di un branco di mostri. Heather decide di andare nella natia cittadina texana, per via di un'eredità lasciatale dalla nonna, morta da poco. Il fidanzato Ryan e una coppia di amici la accompagnano… Sarà un massacro!
Questa nuova puntata della saga che vede protagonista Leatherface si propone come una continuazione della pellicola originale diretta da Tobe Hooper nel lontano 1974, senza tener conto dei vari altri sequel prodotti in questi anni. L’idea di partenza non è male, ma presto il tutto si trasforma in un movie maniac poco coinvolgente, che presenta una sceneggiatura scritta ad otto mani da eccellenti nomi del cinema di genere ( Adam Marcus, Debra Sullivan, Kirsten Elms e Stephen Susco ), ma che nonostante ciò riposa su una base poco solida ( teen ager dediti all’alcool e al sesso facile, sangue a volontà e poca atmosfera ) e che preferisce lasciar spazio a lunghi inseguimenti e a qualche sequenza splatter certamente ben realizzata. Gli effetti di trucco ed il make up sono ottimi ed anche l’idea di tributare alcuni protagonisti del passato non è male   ( Gunnar Hansen, Bill Moseley, Marilyn Burns ); del 3D non sono un appassionato e quindi non tengo in considerazione questa peculiarità, ma la sola cosa certa è che eccezion fatta per la breve nota introduttiva poi il film non riporta nulla dell’aria sinistra e malsana dell’originale pellicola hooperiana. Il finale,comunque poco apprezzato da chi scrive, cela una profonda, ma non certo originale riflessione sociale presentando uno scontro tra i Mostri generati dalla fantasia e quelli reali, che ci circondano.
Nel complesso il film diretto da John Luessenhop suscita interesse, ma certo non tanto da volerne addirittura produrre un sequel!!